Appunti di diritto (in)civile.

Bibliotecaria mancata. Studentessa quando capita. Giurista in divenire.


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Concorso letterario: Donne, parole che lasciano il segno

Photo credit: reverendtimothy

(Articolo originariamente pubblicato su Finzioni)

Se siete donne, vivete in Italia e avete avuto, vostro malgrado, esperienza di violenza diretta o indiretta nelle sue innumerevoli forme, sappiate che l’Associazione Mafalda-VocidiDONNE, in collaborazione con le Associazioni NON SEI SOLA e Donne Nuove, ha indetto il Concorso letterario nazionale Donne, parole che lasciano il segno rivolto, come si diceva poco sopra, alle donne che hanno avuto esperienza di violenza diretta o indiretta, in ogni sua forma, per offrire alle stesse un’opportunità di espressione e condivisione.

Il concorso, gratuito, si articola in due sezioni:

A. Racconti brevi (fino a un massimo di n. 10 fogli A4 carattere 12);

B. Poesie (fino a un massimo di tre composte da non più di 36 righe).

Ogni autrice potrà inviare opere per una sola delle due categorie purché non siano già state premiate o segnalate in altri concorsi.

Vista la delicatezza dell’argomento trattato è prevista la possibilità, per le donne che lo desiderano, di partecipare utilizzando uno pseudonimo o richiedendo l’anonimato.

Le opere possono essere inviate a VocidiDONNE sia in formato cartaceo sia in formato elettronico, entro le ore 24 del 10 dicembre 2012.

Ogni sezione vedrà tre vincitori che riceveranno:

Sezione A.

1° classificato: assegno di € 300

2° classificato: assegno di € 200

3° classificato: assegno di € 100

Sezione B.

1° classificato: assegno di € 300

2° classificato: assegno di € 200

3° classificato: assegno di € 100

Inoltre, è prevista la pubblicazione delle prime 20 poesie e dei primi 10 racconti brevi, mentre tutte le opere non vincitrici verranno rese disponibili sul sito dell’Associazione (previa autorizzazione esplicita dell’autrice) ed entreranno così a far parte della raccolta di testimonianze che il concorso mira a raccogliere e diffondere.

La cerimonia di premiazione si terrà a Biella l’8 marzo 2013.

Per ogni ulteriore informazione vi invito a consultare il sito dell’Associazione VocidiDONNE, dal quale potrete scaricare il bando completo del concorso, o a scrivere all’indirizzo e-mail: mafaldavocididonne@gmail.com.


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Abortire nella terra degli obiettori

Mi preme segnalare questo articolo, riportato anche da un sito che, già che ci sono, vi consiglio di tenere d’occhio: Zero Violenza Donne.

Chi segue Diritto (in)civile da un po’ sa già come la penso sull’aborto. Chi, invece, passa di qua per la prima volta, può dare un’occhiata a questo post (commenti compresi). Questo solo per dire: non sono favorevole all’aborto inteso come “contraccettivo ritardato” e, personalmente, credo non abortirei mai (ma, dopotutto, mai dire mai, che in certe situazioni bisogna trovarcisi).

Nonostante questo, ritengo che ci siano delle situazioni in cui, purtroppo, l’aborto debba essere preso in considerazione e penso che fare di questa scelta di per sé già difficile e dolorosa un interminabile percorso a ostacoli sia un atto di egoismo e violenza.

Perché leggendo le storie di queste donne, davvero non capisco come si possa essere tanto insensibili da abbandonarle a se stesse in simili momenti (intendo soprattutto dopo l’aborto, ma leggendo l’articolo capirete a cosa mi riferisco). Non credo spetti all’uomo (inteso come essere umano e non come essere di sesso maschile) giudicare, in questi casi. Tanto più lasciando queste donne da sole per ore, con il feto che hanno espulso tra le gambe, ancora caldo. Umanamente, mi sa tanto di crudeltà gratuita.

Ora. Non voglio aprire un dibattito sul tema “aborto sì/no”. Ce ne sono già troppi e verrebbe fuori un pandemonio. Vorrei solo che, dopo aver letto l’articolo linkato, tutti provassero a mettere da parte convinzioni politiche/religiose/sociali e a porsi, semplicemente, nei panni di chi ha appena perso un figlio che, per un motivo o per l’altro, non potrà mai stringere tra le braccia.

Buona lettura.


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Nina e i diritti delle donne – Cecilia D’Elia

Ci segnala Loredana Liperrini che c’è un nuovo libro da mettere sotto l’albero. Si intitola Nina e i diritti delle donne, scritto da Cecilia D’Elia e illustrato da Rachele Lo Piano.

Questo è quanto troviamo sul sito della casa editrice Sinnons:

«Oggi i ragazzi e le ragazze posso scegliere cosa fare da grandi. Ma in Italia, solo 45 anni fa, alcune professioni erano vietate alle donne: come la magistratura e altre ancora nei pubblici uffici. Attraverso la voce di Nina e la storia della sua famiglia, il racconto di come è cresciuta l’Italia attraverso l’evoluzione dei costumi, delle donne e della società intera: per mostrare ai giovani lettori e lettrici che niente si può dare per scontato e che tanti diritti, che oggi sembrano ovvi, sono in realtà frutto di grandi battaglie avvenute pochi anni fa e che non vanno dimenticate! Soprattutto per non tornare indietro.»

Fra i temi trattati: diritto di famiglia e aborto. Tra le figure descritte: Franca Viola, Tina Anselmi, Nilde Iotti. In più ci sarà una bella appendice con tutte le leggi in materia.

Aspetto a dare un giudizio personale sull’opera in sé, visto che preferisco prima darci almeno un’occhiata. Descritta così, comunque, sembra molto interessante. Così interessante che mi sentirei di consigliarne la lettura anche a qualche ometto più grandicello (e anche a qualche femminuccia, sì).

In fondo, signori miei, non si smette mai di imparare.


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Nella cattiva sorte. [racconto]

[Racconto temporaneamente rimosso in quanto partecipante a concorso letterario]

{Ricordo, viste le brutte esperienze passate, che questo racconto (come del resto tutto quello che è scritto in questo blog) è protetto da una Licenza Creative Commons. Per maggiori informazioni sulla possibilità di condividerlo vi prego di consultare l’apposito banner posto nella colonna qui a fianco. Rimango a disposizione per ulteriori informazioni (dirittoincivile@gmail.com). Grazie. }


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Violenza domestica: chi è il maltrattatore?

La violenza contro le donne va inserita nel più generale quadro della violenza di genere ed è oggi riconosciuta dalla comunità internazionale come una violazione dei diritti umani.
Include ogni azione violenta, sia essa fisica o psicologica, perpetrata da uomini o da istituzioni patriarcali nei confronti delle donne in quanto appartenenti al genere femminile.
Molte culture, credenze e persino leggi e istituzioni legittimano ancora oggi la violenza contro le donne, diffusa come piaga sociale (colpisce donne di qualsiasi età, religione, cultura, livello di istruzione, estrazione sociale) e, nonostante questo, spesso dimenticata.
A differenza di quanto si potrebbe credere, il tipo di violenza contro le donne più diffusa è quella perpetrata in famiglia dal proprio partner o ex partner: la violenza domestica.

Ma chi è il maltrattatore?
Quando si pensa a un uomo violento, subito il pensiero va a un emarginato sociale, individuabile a prima vista come persona pericolosa, magari vestito male, con qualche tatuaggio. Tutto muscoli. Un ribelle, insomma, da cui tenersi ben alla larga.
Non è così.
L’85% dei maltrattatori è costituito da uomini stimati socialmente, impiegati o liberi professionisti. E i dati sono confermati dalla pratica: nella mia seppur breve esperienza ho avuto per lo più a che fare con donne maltrattate il cui compagno era stimatissimo socialmente (volontari, consiglieri comunali e via dicendo). Si tratta di soggetti in grado di controllarsi fuori dall’ambiente domestico, violenti solo con la propria partner.
Più di rado (il restante 15%) si tratta, invece, di uomini già noti ai Servizi Sociali e alle Forze dell’Ordine perché violenti anche in altri contesti oltre a quello familiare.
Spesso si tratta di tipi possessivi, gelosi e, in quanto tali, insicuri e fortemente dipendenti dalla propria vittima (a tal punto che, se hanno paura di perderla, possono arrivare a ucciderla). Individui deboli che sentono il bisogno di esercitare potere sulla loro compagna e di controllarla, ricorrendo a mezzi che, di fatto, sono gli stessi per ogni situazione di violenza domestica (per approfondire si veda l’articolo sulla spirale della violenza domestica).
La maggior parte dei maltrattatori ha una visione rigida e tradizionale della vita e dei ruoli fra uomini e donne, visione che il più delle volte è conseguenza della cultura e dell’educazione cui sono stati sottoposti. E’, infatti, circa il 60% di essi ad aver subito maltrattamenti o ad essere stato spettatore di violenza.

Diverse teorie sono state elaborate nel corso degli anni, prima fra tutte quella che vorrebbe l’uomo violento malato, da curare. Si tratta di una teoria che non trova riscontri psicologici, tanto più che, come appena visto, il più delle volte i violenti lo sono solo con le loro vittime e questo non corrisponde al profilo di persone malate di mente.
Altra teoria è quella della c.d. famiglia conflittuale che mette sullo stesso piano vittima e carnefice, senza tener conto che nel caso di specie non si parla di conflitto bensì di violenza e non ci si trova di fronte a una situazione simmetrica quanto asimmetrica. E con questo si risponde anche a quelli che ogni volta scattano dicendo che allora “qualsiasi lite è considerabile violenza domestica”. Certo che no. La conflittualità fa parte della vita di coppia, ma un litigio “normale” vede i partners su un piano di parità e non di supremazia dell’uno sull’altra.
Ulteriore teoria descrive la violenza come “perdita di controllo” ed è contraddetta dallo stesso ragionamento svolto in merito al “violento malato”.

Alla luce di quanto appena detto, dunque, le cause della violenza domestica sono raramente imputabili a origini fisiologiche o biologiche.

Quanto all’abuso di alcol e stupefacenti, non è credibile a mio parere chi individua negli stessi le uniche cause dirette della violenza. Più volte mi è capitato di sentire ragionamenti come: “mio marito è violento, ma poverino è colpa dell’alcol. Se non beve non mi pesta, si limita a strillarmi contro”. Alcol e droghe non sono la causa del maltrattamento (che, anche nel caso appena descritto, sussiste comunque dal punto di vista psicologico), ma incrementano il comportamento violento poiché riducono le inibizioni e la capacità di autocontrollo.

Quanto alla sostanza, il comportamento violento può manifestarsi, dal punto di vista fisico, nei modi più svariati: spintoni, schiaffi e pugni, morsi, sputi, bruciature, tentativo di strangolamento, tortura, aggressione con arma da fuoco, pestaggio durante la gravidanza, costringere la partner ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà, commettere atti sessuali violenti o degradanti, e così via.
Altrettante possono essere le condotte in cui si sostanzia la violenza psicologica: insulti, giochi mentali, denigrazione, imposizione di comportamenti inutili e degradanti (pretendere che il pavimento venga rilavato più e più volte o – e questa l’ho sentita davvero – arrivare alle minacce e alle botte perché l’insalata non è stata sciacquata con una certa acqua e un certo quantitativo di volte, etc.), menzogne, produrre l’isolamento della vittima, eccessiva gelosia, minaccia di sottrarre i figli o di far del male agli stessi, prendere decisioni importanti senza consultare la compagna, usare la conoscenza di abusi precedenti per far pressione sulla partner, e via dicendo.

Questo un quadro generale. Riduttivo, ovvio, ma a mio parere utile per introdurre il discorso sulla violenza domestica dopo il post precedente.

Chiudo con un interrogativo: un uomo violento può cambiare?
Aspetto le vostre considerazioni.

Alla prossima.


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Prescrizione breve: le conseguenze disastrose per le donne vittime di violenza domestica.

Ricevo e pubblico.

L’Associazione D.i.Re donne in rete contro la violenza, che racchiude 58 centri antiviolenza d’Italia, rilancia con forza l’allarme del Gruppo delle  Avvocate che collaborano con i Centri antiviolenza italiani,  che assistono quotidianamente donne vittime di reati gravemente lesivi dei diritti fondamentali e della dignità,  manifesta forte preoccupazione per le conseguenze che l’attuale proposta di legge sul “processo breve”, che diminuisce i termini di prescrizione del reato, avrà sulle tante donne che trovano il coraggio di denunciare le violenze subite rischiando anche la propria vita.

I dati sulle uccisioni delle donne denunciano dal 2005 un aumento progressivo: 101 nel 2006, 107 nel 2007, 113 nel 2008, 119 nel 2009. Il 2010 è stato caratterizzato da una sequenza quasi quotidiana di donne assassinate perché avevano rifiutato una relazione o avevano deciso di separarsi dal partner maltrattante.

Una legge che se approvata toglie ogni possibilità di prevenzione e repressione della violenza domestica e di altri reati gravi commessi quotidianamente nei confronti delle donne, reati questi caratterizzati da profili investigativi molto complessi perchè quasi mai compiuti alla presenza di testimoni diretti.

La riduzione dei termini massimi per le indagini e dei termini di prescrizione contribuisce a legittimare la cultura dell’impunità che sottende sempre alle violenze commesse nei confronti delle donne, in quanto reati ancora sottovalutati, sebbene riconosciuti a livello internazionale come grave violazione dei diritti umani.

Ragionevole e giusto è quel processo che nel rispetto dei diritti dell’imputato,  accerti la verità dei fatti e la sussistenza o meno della responsabilità penale dell’imputato e, al contempo, garantisca i diritti delle vittime di reato e tuteli la loro persona, così come sancito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

L’attuale disegno di legge introduce nel nostro ordinamento ulteriori profili di incompatibilità con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che con sentenza del 29 marzo 2011, Alikaj c. Italia, ha già  condannato l’attuale sistema di prescrizione vigente in Italia, evidenziando che  lo stesso è privo di qualsivoglia forza dissuasiva utile a prevenire efficacemente gli atti illeciti con il rischio di una totale impunità dei colpevoli e la violazione dei diritti fondamentali delle vittime e conseguente  perdita della fiducia della collettività nello stato che tale impunità incoraggia.

Ci opponiamo a questa grave umiliazione ed illegittimità.

Referente Penale gruppo avvocate D.i.re

Avv.ta M.Teresa Manente

Presidente D.i.re

Alessandra Bagnara


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Quando un Paese e la sua cultura vanno a escort.

A prescindere dalla disastrosa situazione politica in cui ci troviamo. A prescindere dalla quasi assoluta mancanza di alternative serie. A prescindere dallo schifo che TUTTI fanno, destra o sinistra poco importa. Io davvero non capisco come possano i miei coetanei (ragazzi dai 20 anni in poi, per capirci), con un futuro davanti e un’educazione alle spalle, tollerare che l’Italia sia governata e rappresentata da un 73enne omofobo, pedofilo, razzista, misogino, ipocrita e volgare.
Non comprendo come possano le donne sentirsi rappresentate da un uomo che mercifica i loro corpi per abitudine.
Non capisco come possano continuare così i cattolici, tanto integri nei loro costumi e nella loro morale. Sono solo schifata e attonita.

E non comprendo come le cosiddette Arcore Girls possano essere chiamate a destra e a manca per fare serate, rilasciare interviste, scrivere libri, addirittura. Davvero non capisco.

Non riesco a capacitarmi del fatto che in Italia, un paese in cui si fa tanto per combattere la prostituzione, un paese in cui la legge punisce (o comunque dovrebbe punire) chi sfrutta la prostituzione, soprattutto se minorile, si sia diventati così ipocriti da distinguere tra prostitute di strada, le cosiddette “puttane” e le prostitute d’alto borgo, le cosiddette “escort“.

Cambia il termine, ma non la definizione.
Perché se un uomo va a cercare del sesso a pagamento in strada viene multato e se invece lo cerca a Palazzo Grazioli no?
Perché una ragazza che si prostituisce sulla tangenziale viene portata al comando dei Carabinieri e se le va male anche denunciata perché clandestina e una che, invece, si prostituisce in una villa di Arcore viene fatta uscire dalla suddetta caserma grazie a una provvidenziale telefonata del Presidente del Consiglio (e se questo non è abuso di potere vi prego di spiegarmi cosa invece è definibile come tale)?
La cosa che più mi fa paura è che c’è chi ancora difende questa macchietta che ci governa.

Leggevo ieri la copia di Internazionale di settimana scorsa. Internazionale, per chi non lo sapesse, è un settimanale che raccoglie gli articoli più interessanti dei quotidiani e delle riviste di tutto il mondo e li traduce in italiano, raggruppandoli per tipo di notizie e aree tematiche.
L’impressione che si ha leggendo la stampa estera che parla dell’Italia e di Berlusconi non è più quella che si poteva avere fino a poco tempo fa, vale a dire un misto di ironia e disprezzo. No.
In tutti gli articoli tradotti ho trovato stupore, incredulità.
Come possono gli Italiani, si chiedono Inghilterra, U.S.A., Francia, Svizzera, Spagna e molti altri, tollerare ancora di essere governati da un uomo che continua a metterli in ridicolo? Come può la patria della cultura permettere a un unico uomo di gettar fango sulla propria storia, sulla propria dignità? Non capiscono. E non lo capisco nemmeno io.

Come possiamo, noi studenti, permettere che le nostre università vengano dimenticate? Ma a voi non viene una gran rabbia ogni volta che dovete preparare un esame e ci mettete l’anima pur sapendo che nella vita è probabile che veniate sorpassati da chi ha una bella raccomandazione o da chi la sa dar via meglio?
Avete sentito a Vieni via con me l’ammontare degli stanziamenti esteri per la cultura? E avete fatto caso alle dichiarazioni rilasciate a tal proposito da Bondi e Tremonti?
Ma, poverini, non è solo colpa loro dopotutto. Da quando sono nata non ricordo un governo che si sia preoccupato seriamente dell’istruzione e delle cultura. Nemmeno uno.
Sono tutti bravi ora a darsi la colpa a vicenda per il degrado in cui versa Pompei (ma solo Pompei? La maggior parte del patrimonio artistico italiano è stata dimenticata). C’è chi dice che, tanto, sono solo quattro pietre. Che con la cultura non si campa. Che con la Divina Commedia non ci si possono fare i panini.

Ed è qui che, secondo me, si sbagliano.

L’Italia è la culla della cultura e dell’arte. Se solo questa situazione venisse sfruttata a dovere potremmo campare per buona parte grazie al turismo e all’esportazione della nostra cultura. I cervelli italiani sono ricercatissimi all’estero. In Italia vengono abbandonati a morire di inedia. Consideriamo il latino una lingua morta e il diritto romano una cosa vecchia e inutile. La storia dell’arte una materia scolastica. Fuori dall’Italia c’è chi con queste cose ci tira avanti, e anche bene per dirla tutta.
Riflettiamo un pochino su queste cose, che tanto male non fa.

Ma tanto io ho solo 23 anni e di politica non ne capisco nulla.


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La spirale della violenza domestica.

Dal 2000 ad oggi più di 1100 donne sono state uccise dal proprio partner. Sembra il dato di una guerra e forse lo è. Una guerra tra generi, tra uomini e donne, tra carnefici e vittime. Una guerra nascosta tra le mura domestiche, ritenuta quasi “privata”. Una guerra dimenticata.

La violenza domestica, spesso, si manifesta in modo subdolo. Non sempre si tratta di violenza fisica o almeno, non sempre nasce direttamente come tale, bensì sorge come violenza psicologica, difficile da riconoscere in principio. Una volta entrata nella cosiddetta spirale della violenza, tuttavia, è difficile per la donna uscirne. Ci vuole coraggio, ci vuole determinazione. Ci vuole quella cognizione di sé, quella sicurezza che il maltrattatore tenta in tutti i modi far venire meno in modo da avere il controllo totale, fisico e, ancor prima, psicologico, sulla sua vittima.

Ma vediamo come si articola questa spirale della violenza.

1. Intimidazione: l’uomo fa di tutto perché la partner viva in uno stato costante di paura. Minaccia di lasciarla, di andarsene se lei non lo ascolta, se non si sottomette. Se non ubbidisce. Spesso questa prima fase passa in sordina, confusa con quella che la nostra cultura ci indica come gelosia, partendo da espressioni comunissime, una per tutte: “Se fai questo (i.e. esci con le amiche, ti comporti in un certo modo, etc.) vuol dire che non mi ami”.

2. Isolamento: a seguito delle continue richieste e lamentele del compagno, la donna è spinta a isolarsi dal resto del mondo: si allontana dalla famiglia, dagli amici, dai colleghi di lavoro. In questo modo risulta ancora più in balia dell’uomo, sola se non fosse per lui. In questo modo il maltrattatore acquista maggiore controllo e potere.

3. Svalorizzazione: l’apice della violenza psicologica. I comportamenti dell’uomo sono volti a far nascere nella compagna insicurezza, senso di inadeguatezza e incapacità, che presto portano a una significativa perdita dell’autostima. La vittima, ormai sempre più succube, tende a giustificare quanto le accade.

4. Segregazione: non solo l’uomo allontana la donna da quelli che erano i suoi precedenti contatti (come accade nella fase dell’isolamento), ma la priva anche dei contatti casuali (i commercianti, il medico di base, i vicini di casa), quelli che la portano fuori di casa nella vita di tutti i giorni.

5 e 6. Violenza fisica e violenza sessuale: alla violenza psicologica segue e/o si accompagna la violenza fisica che spesso sfocia nella violenza sessuale e questo accade, si badi, anche nel caso in cui la donna si sente obbligata ad avere rapporti sessuali pur non opponendo evidente resistenza (ad esempio dopo essere stata picchiata).

7. False riappacificazioni: a momenti di violenza si alternano momenti di pentimento. E sono proprio questi momenti, in cui il partner sembra tornare quello di cui si è innamorata tempo prima, a spingere la donna a perdonare, a giustificare, a sperare in un cambiamento perenne. Un cambiamento che non arriva mai.

8. Ricatto sui figli: se le minacce e i maltrattamenti sono quotidiani o tali comunque da scatenare la paura della donna, allora giunge la ribellione. A questo punto l’uomo fa leva sui figli: minaccia di toglierli alla partner qualora non torni ad essere remissiva. A sopportare in silenzio.

Troppe donne sono vittime, a tutt’oggi, della violenza domestica. Una violenza nascosta, si diceva all’inizio, ma non per questo meno pericolosa. Semmai il contrario. E’ la paura a farci dimenticare che esiste. La vergogna. E’ più comodo fare finta di niente, girarsi dall’altra parte, alzare il volume della tv se sentiamo le urla delle nostre vicine di casa al di là del muro del salotto. Per non sentire.

Per fingere che sia solo un’altra leggenda metropolitana.


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Malamore – Concita De Gregorio [rece].

“… C’è una topolina che scopa le scale di casa (…).
A un certo punto, mentre scopa, trova un soldo. (…) Che fortuna ho avuto!, dice la topina. Cosa ci potrei fare? Se mi compro una caramella mi si rovinano i denti, e se mi compro…
e se mi compro… Fa ipotesi e le scarta. Infine trova: ecco, un nastro. Mi comprerò (…) un nastro rosa su cui l’amor si posa. (…) La topolina si lega il fiocco rosa sulla coda e immediatamente, come per una legge di natura, (…) arrivano i pretendenti. Non l’avevano notata finora, la vedono grazie al fiocco. (…)
C’è la fila in fondo alla scala. Arrivano un cane, un asino, un gallo. Tutti le dicono: topolina, sei deliziosa, ti vuoi sposare con me? Allora lei fa loro un test perché è furba, sempre furba.
Chiede a ciascuno: dimmi cosa farai di notte. (…) Chiede anche: fammi sentire la tua voce che ti voglio conoscere meglio. Il cane abbaia, l’asino raglia, il gallo fa chicchirichì. (…)
Da ultimo arriva il gatto. Mellifluo, vellutato, seduttore. Bello. Un gatto, comunque, e lei è un topo. Lui fa miao. La topolina cade in estasi: sei tu, eccoti, sei tu il mio amore. Ti sposo.
Annuncia le nozze. Gli amici topi le dicono: sei pazza, è un gatto, ti mangerà. Lei risponde loro a malapena, con indulgente sufficienza: questo gatto mi ama, mangia gli altri topi ma non mangerà me, fidatevi. Sarò la prima topolina a domare un gatto, aspettate e vedrete: con me diventerà un altro, ne farò un gatto che mangia verdura. Si sposano. Un minuto dopo le nozze il gatto le si avvicina, voi direste per baciarla. E invece… La mangia, naturalmente. (…) resta solo il fiocco rosa…”

[“La rateta que escombrava l’escaleta”, racconto popolare catalano (tratto da “Malamore”, pagg. 16-17)]

Una delle prime cose che Concita De Gregorio ci dice, nell’introduzione, è che “Malamore”, contrariamente a quanto molti pensano, non è un libro sulla “violenza domestica”, bensì una raccolta di storie che gira attorno a un altro argomento, speculare alla violenza domestica: il motivo per cui, in un’epoca di donne intelligenti ed emancipate, donne che, dice l’autrice, “potrebbero aspirare a fare l’astronauta e non la moglie, che non dovrebbero aver bisogno dei soldi e della tutela di nessuno”, queste stesse donne sono disposte a sopportare senza ribellarsi la violenza maschile.

La De Gregorio sostiene che le donne, fin da bambine, sono allevate a sopportare, ad avere una certa confidenza col dolore che gli uomini non hanno.

Sono abituate a giustificare il comportamento dei loro uomini violenti perché si sentono in dovere di aiutarli, di scusarli. Accettano di essere valvole di sfogo della frustrazione maschile, giustificando addirittura ogni maltrattamento, credendolo una sorta di “prezzo da pagare” per la propria libertà fuori dalle mura domestiche.
Le donne massacrate, ci dice l’autrice, hanno quasi sempre la “colpa” di aver negato qualcosa a un uomo: non hanno voluto rimanere con lui, non hanno voluto abortire, non hanno voluto andarsene da casa. Si tratta quindi di rivalsa o vendetta, una sorta di revival di un delitto d’onore che è stato sì cancellato dal nostro legislatore, ma che nella prassi continua a vivere e ad essere, il più delle volte, giustificato dal senso comune.

La donna moderna ritratta in Malamore è quella che lavora tutto il giorno e al contempo riesce ad essere madre, moglie e donna delle pulizie, in un meccanismo così radicato nella nostra cultura da essere per quasi tutti normale. La donna moderna, dice l’autrice, è quella che si rassegna al fatto che se sia lei che il marito hanno un’importante riunione di lavoro, sarà lei a doverla disdire per accompagnare il figlio dal dentista, non il consorte.

E il brutto è che la cosa non provoca dissenso né stupore: lei è la moglie, la madre, è normale che si occupi dei figli. Il marito non può certo perdere un’ora di lavoro. E’ l’uomo di casa che deve pensare alla carriera, la donna può anche metterla in secondo piano.

Prima viene la famiglia. Per lei.

Concita De Gregorio non ci pone però di fronte a storie ordinarie. Ci racconta fiabe, film, fumetti e storie di donne famose. C’è la fiaba di Barbablù, quella della Rateta (riportata nella citazione iniziale), la storia della maga Circe. Si parla de “La sposa cadavere” di Tim Burton, di Eva Kant (la coraggiosa fidanzata di Diabolik), di Artemisia Gentileschi e di Dora Maar.

Il suo stile è semplice, chiaro, privo di frivolezze e straordinariamente diretto.

E’ un libro, in fin dei conti, breve e facile da leggere. Poco tecnico, nonostante l’argomento trattato. Eppure il contenuto è così denso di significato e, purtroppo, così vero, che capita spesso di soffermarsi a pensare. A riflettere su come sia possibile accettare ancora oggi, nonostante tutto, di credere che le donne abbiano il dovere di sopportare.

E’ una concezione, quella di Concita De Gregorio, che si può condividere o meno. Spesso è quasi provocatoria in quel suo dipingere la cruda realtà in cui vive ogni donna, di qualsiasi età, professione e ceto. Così provocatoria che può urtare un po’. Ma aiuta a riflettere e a guardare con occhi diversi le nostre mamme, le nostre sorelle, le nostre amiche.

E anche noi stesse.

Il malamore è gramigna, cresce nei vasi dei nostri balconi. Sradicarlo costa più che tenerselo. Dargli acqua ogni giono, alzare l’asticella della resistenza al dolore è una folle tentazione che può costare la vita.”


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Quando il preservativo ha i denti.

Lo stanno distribuendo proprio in questi giorni alle donne africane sfruttando l’occasione dei mondiali per pubblicizzare la cosa.

Si tratta dell’ultima trovata in materia di Antiviolenza, opera della dottoressa sudafricana Sonnet Ehlers, che da anni aiuta le donne vittime di violenza carnale.

Rape-aXe non è altro che un normale condom femminile da inserire direttamente nella vagina ma, e qui sta la novità, nella parete esterna ha delle protuberanze a forma di denti che, a contatto col pene maschile, provocano dolori inimmaginabili. Una volta “scattata la trappola”, rivela la Ehlers alla Cnn, «… fa male, non permette di urinare e nemmeno di camminare. Se lo stupratore tenta di rimuoverlo, proverà ancora più dolore. Tuttavia non si attacca alla pelle e non provoca alcun problema alla circolazione del sangue».

E’ la realizzazione concreta, insomma, dell’atavico terrore maschile rappresentato dalla tanto temuta “vagina dentata“.

L’invenzione in questione ha suscitato critiche di ogni genere. C’è chi la presenta come un’innovazione meravigliosa che permetterà alle donne di proteggersi dalla violenza e chi, al contrario, grida allo scandalo.

E’ un congegno medievale, dicono, che risponde alla violenza con altra violenza.

Dal canto mio, a dire il vero, sono un po’ confusa.

Rispondere alla violenza con la violenza? E l’alternativa sarebbe? Un giusto processo? Perfetto.

Ma al momento dello stupro cosa può fare una donna per sottrarsi a tanta violenza? Dire “Ehi! Parliamone da persone civili! Senza usare metodi medioevali!”

Perché se la tortura è un metodo medioevale, lo è anche lo stupro. E non si sta parlando di staccare a morsi i gioielli di famiglia dello stupratore, ma solo di fargli molto, molto male senza tuttavia causargli danni irreparabili e di costringerlo ad uscire allo scoperto per farsi levare quello che diviene il simbolo della sua colpa (l’unico modo per rimuovere Rape-aXe, infatti, è un intervento chirurgico).

Perché troppo spesso accade che la donna non sappia identificare il suo aggressore o, peggio, abbia paura di identificarlo.

E allora ben venga Rape-aXe. Così che certe “bestie” ci pensino due volte prima di stuprare una donna, vista la possibilità di ritrovarsi, letteralmente, l’uccellino in gabbia.

Fonti: Corriere della Sera, Rape-aXe.