Appunti di diritto (in)civile.

Bibliotecaria mancata. Studentessa quando capita. Giurista in divenire.


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Nina e i diritti delle donne – Cecilia D’Elia

Ci segnala Loredana Liperrini che c’è un nuovo libro da mettere sotto l’albero. Si intitola Nina e i diritti delle donne, scritto da Cecilia D’Elia e illustrato da Rachele Lo Piano.

Questo è quanto troviamo sul sito della casa editrice Sinnons:

«Oggi i ragazzi e le ragazze posso scegliere cosa fare da grandi. Ma in Italia, solo 45 anni fa, alcune professioni erano vietate alle donne: come la magistratura e altre ancora nei pubblici uffici. Attraverso la voce di Nina e la storia della sua famiglia, il racconto di come è cresciuta l’Italia attraverso l’evoluzione dei costumi, delle donne e della società intera: per mostrare ai giovani lettori e lettrici che niente si può dare per scontato e che tanti diritti, che oggi sembrano ovvi, sono in realtà frutto di grandi battaglie avvenute pochi anni fa e che non vanno dimenticate! Soprattutto per non tornare indietro.»

Fra i temi trattati: diritto di famiglia e aborto. Tra le figure descritte: Franca Viola, Tina Anselmi, Nilde Iotti. In più ci sarà una bella appendice con tutte le leggi in materia.

Aspetto a dare un giudizio personale sull’opera in sé, visto che preferisco prima darci almeno un’occhiata. Descritta così, comunque, sembra molto interessante. Così interessante che mi sentirei di consigliarne la lettura anche a qualche ometto più grandicello (e anche a qualche femminuccia, sì).

In fondo, signori miei, non si smette mai di imparare.


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La ragazza fantasma [rece]

Lo ammetto: “American Gods” non sono riuscita a finirlo per ora. Non che non mi piaccia, anzi, lo trovo splendido e scritto divinamente. Venderei un rene pur di saper scrivere come Gaiman ha scritto questo romanzo. Ho già letto altri suoi romanzi. Li ho trovati interessanti, ricchi di idee, ben scritti, ma ad affascinarmi erano più i contenuti che lo stile.
In questo caso invece no. Gaiman è perfetto. Punto. Dialoghi, descrizioni, caratterizzazione dei personaggi, uso del punto di vista. Perfetto.
Però non sono in vena di leggerlo. Forse proprio perché non voglio sprecare una lettura simile ora, che so di non avere lo spirito giusto per apprezzarla appieno. Prima o poi lo finirò, promesso.
Ho letto altro, in compenso, qualcosa di più leggero (ok, anche il manuale di procedura penale, ma non lo qualifico tra le letture leggere), ovverosia “La ragazza fantasma” di Sophie Kinsella.

Dopo “La signora dei funerali” mi sono tenuta lontana da quest’autrice per un po’, tanto grande è stata la delusione. Alla fine, però, non ce l’ho più fatta: io, alla Sophie, ci voglio troppo bene. Fa sorridere in modo garbato, scrive bene e, soprattutto, non si monta la testa.
I suoi romanzi sono così: freschi, leggeri, una ventata di buonumore. Magari le sue protagoniste sono un po’ matte, di sicuro a volte ti verrebbe da immergerle con tutti i loro vestitini griffati in un bel bagno di realtà, ma poi si fanno perdonare (quasi sempre).
 Ad ogni modo, non considerando “La signora dei funerali” che appartiene alla vecchia vita della Sophie, io coi suoi libri mi ci diverto un sacco.
E così è successo con “La ragazza fantasma” e devo ammetterlo: era dai tempi de “La regina della casa” che un suo romanzo non mi procurava delle risate tanto sane e spensierate.

La storia, in breve, è questa: Lara è una ragazza come tante, appena tornata single e con manie da stalker, indebitata fino al collo, con una famiglia sui generis. Una bel giorno è costretta, per salvare le apparenze, a partecipare insieme alla sua famiglia al funerale di una prozia della cui esistenza è a malapena a conoscenza. Peccato che, nel bel mezzo del funerale, il fantasma della suddetta prozia, che di nome fa Sadie, decida di apparirle (acquisendo le sembianze di una prozia fanciulla, appena ventenne) per affidarle un arduo compito: recuperare la sua collana prima che il suo corpo venga cremato. Mission impossible, visto che la cremazione è prevista subito dopo il funerale.
Lara è dunque costretta a fermare la cerimonia al grido di: “Credo che la zia sia stata assassinata!” con tutto quel che l’escamotage comporta. E’ l’inizio di un’amicizia fuori dal comune, che vedrà Lara al seguito di Sadie, un’eccentrica fantasmina in tenuta anni  ’20, molto più scaltra e disinibita della sua giovane pronipote.
Sarà un’avventura piena di intrighi, sfide, enigmi vari ed eventuali con tanto di piccolo giallo sulla storia dell’arte da risolvere, giusto per non farci mancare nulla.

C’è la storia d’amore, come in ogni romanzo kinselliano che si rispetti. Ed è molto carina, anche se non originalissima.

Lo stile. Be’, lo stile è quello della Kinsella nei suoi momenti migliori, spumeggiante e mai lezioso.
I personaggi sono ben curati, tragici quanto basta per non ridurli a banali macchiette. L’ambientazione è, come al solito, molto dettagliata e ricca di riferimenti alla Londra dei giorni nostri.

Un bel libro per trascorrere qualche ora in allegria, insomma.
Consigliato!


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Sondaggio (The Winner is…) e “Il cigno nero” [rece]

Ehm… non mi sono dimenticata, davvero. E’ che in questi giorni ho avuto molto da fare (lezioni ricominciate, studio da riprendere, piccoli problemi in famiglia, varie ed eventuali) e poco tempo da dedicare al blog.
Duuunque, per quanto riguarda il sondaggio, Siore e Siori, we have a winner:

Neil Gaiman, con il suo “American Gods“, si aggiudica la prossima recensione incivile. Datemi una settimanella o poco più per mettere a punto il tutto, please. Recensire Gaiman non è impresa da poco e non mi piace, ormai dovreste averlo capito, parlare di cose che non conosco bene/recensire “tanto per”.

I risultati nello specifico, comunque, sono i seguenti:

1°: American Gods (40%)
2°: Il giullare della regina (26,67%)
3° Ascolta il mio cuore (20%)
4°: Una moglie a Gerusalemme (13,3%)
5°: Carlotta e Carlotta (0%)

E io che avevo già pronta una bella stroncatura per “Una moglie a Gerusalemme”. M’ero anche preparata e documentata!
E invece mi toccherà tessere le lodi del mio adorato Neil… va be’, vi propinerò la mia vena acida tra un po’ (oppure la riserverò per La Libreria Immaginaria, che so che a Sara piacciono particolarmente le mie stroncature. Buongustaia!)

Ad ogni modo, parlando d’altro, ieri sera ho finalmente avuto modo di guardare “Il cigno nero”.
Non aspettatevi da me un commento tecnico perché non sono in grado, vi dirò invece cosa ha provato il mio stomaco.
Sì. Il mio stomaco, perché “Il cigno nero” è un film che colpisce direttamente lo stomaco. Lo pungola, lo stringe, lo accoltella, lo sminuzza. Il regista (Darren Aronofsky) gioca in modo alquanto sadico con la psicologia dei suoi personaggi, in un modo che definirei quasi “dostoevskijano”. Ti costringe a calarti nei panni di una dolce e fragile ballerina (Nina) che viene scelta da un fastidioso (e insidioso) Vincent Cassel per diventare la nuova stella della danza classica e interpretare la protagonista del famoso balletto “Il lago dei cigni”. Ma non c’è solo il ruolo di Odette ad attenderla. Nina dovrà, infatti, calarsi nei panni della gemella cattiva. Del Cigno Nero, appunto.
E qui iniziano i guai, perché Nina scoprirà pian piano la sua vera natura, tutt’altro che dolce e fragile, succube di una corsa in contro alla Perfezione (per raggiungere la quale sembra inevitabile il passaggio per la Perdizione) e al suo vero Io che la porta ad abbandonarsi all’autolesionismo e alla schizofrenia. Perché, sembra dirci Aronofsky, solo con la dolorosa distruzione di se stessi, solo con la Morte, si può raggiungere la Perfezione.

Sorprende l’interpretazione del Premio Oscar Natalie Portman, col suo viso tanto angelico quanto demoniaco che contribuisce alla creazione di un’atmosfera disturbante (è il primo aggettivo che mi viene in mente per definire questo film: disturbante).
Ah, per i maschietti: vedrete la cara Natalie intenta a tentare di raggiungere svariati orgasmi e ci sarà, sì, la tanto decantata scena lesbo. Ma se andate al cinema solo per vedere Mila Kunis con intenta a slinguazzare l’interno coscia della Portman rimarrete delusi: è un vedo non vedo. Sexy, sì, ma ben poca cosa da un punto di vista meramente sessuale.

Comunque. Un film da vedere, di sicuro. Se avete un animo sensibile, però, non aspettatevi di dormire sonni tranquilli. Ripeto: non sarà paura quella che vi piomberà addosso una volta conclusa la visione, ma ne rimarrete profondamente scossi.

Per riprendervi da “Il cigno nero”, tuttavia, potete sempre pensare che tra 10 giorni esatti arriverà… BORIS! Speriamo solo che non si tratti di un pesce d’aprile…

Alla prossima!


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La prossima recensione (in)civile? A voi la scelta! [sondaggio]

Visto che sono malatina ho un po’ di tempo per leggere, cosa che non accadeva da moltissimo. Vi propongo allora, qui di seguito, una serie di titoli corredatti da brevissime descrizioni. Si spazia dal fantasy al romanzo storico, passando per la letteratura per ragazzi fino ad arrivare all’attualità della violenza domestica e dell’ortodossia religiosa.

Non vi resta che scegliere e votare nel sondaggio che trovate nella colonnina qui a sinistra, in alto. Avete tempo fino a lunedì sera!

American Gods. Dalla penna del genio dell’urban fantasy, le avventure di un uomo come tanti altri, cittadino dell’America moderna, catapultato al seguito del dio Odino all’inseguimento di divinità ormai dimenticate.

 

 

Ascolta il mio cuore. Tra i banchi di scuola del secondo dopoguerra, la storia dell’amicizia di tre bambine e della loro lotta contro una terribile maestra. Tra Conigli, Maschiacci, Leccapiedi e tartarughe a orologeria.

 

 

 

Carlotta e Carlotta. Avete presente il fantastico film della Disney “Il cowboy col velo da sposa” o il remake “Genitori in trappola” del 1998 con Lindsay Lohan? Ecco, questo è il romanzo da cui è tratta la storia. Per chi non conoscesse le trasposizioni cinematografiche: due ragazzine si incontrano al campo estivo. Due ragazzine identiche che, ben presto, scopriranno di essere due gemelle separate alla nascita dai genitori. E allora quale miglior soluzione ai loro problemi, una volta finite le vacanze, se non quella di… scambiarsi?

 

Il giullare della regina. Alla morte di Enrico VIII le due figlie, Maria ed Elisabetta, si contendono il trono. La storia ci viene raccontata da Anna, una ragazza spagnola che vive a corte come Sacro Giullare e che è costretta a nascondere le sue origini ebree per non incappare nelle persecuzioni della sanguinaria regina Maria. Un romanzo storico, dimostrazione che si può scrivere d’amore e intrighi di corte senza scadere nello stile harmony.

 

Una moglie a Gerusalemme. Una ragazza ebrea cresciuta nell’America moderna e costretta a trasferirsi a Gerusalemme per sposarsi e seguire le tradizioni della sua antica e importante famiglia. Innamorata dell’amore e succube del padre acconsente, ma il sogno di un marito perfetto e di una famiglia tutta sua presto s’infrange contro la crudele realtà della violenza domestica e dell’ortodossia religiosa.


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Lo stralisco – Roberto Piumini [rece]

“– Sì, è simile al grano, ma sono spighe di stralisco.
­ – Stralisco? E’ una pianta che non conosco, ­ – disse Sakumat, avvicinando con curiosità la faccia a una delle spighe dipinte, per studiarla meglio.
­ – Nessuno lo conosce, ­ – disse Madurer, ­ – è una specie di pianta luminosa.
­ – Luminosa?
­ – Sì, splende nelle notti serene. E’ una specie di pianta-lucciola, capisci? Noi adesso non la vediamo spnedere, perché è giorno. Ma di notte lo stralisco illumina il prato.”

Lo stralisco Lo stralisco è un romanzo breve (poco più di 100 pagine nell’edizione della collana Storie e rime, Einaudi Ragazzi, illustrazioni di Cecco Mariniello comprese) che racconta dell’amicizia tra Sakumat, un pittore turco, e Madurer, un bambino affetto da uno strano malanno che lo costringe a rimanere rinchiuso nelle sue stanze senza poterne mai uscire.
Il compito di Sakumat è portare il mondo esterno in quelle camere asettiche, mischiando realtà e fantasia, coinvolgendo il suo piccolo committente nella creazione di un universo in miniatura fatto di campagne, boschi e mari sconfinati che si trasformano al mutare delle stagioni come per magia.
Le figure sulle pareti sembrano così vivere di vita propria, descritte con uno stile semplice ma mai scontato, dolce ma mai lezioso, che regala a chiunque lo legga una sincera commozione.
I tre personaggi principali (il pittore Sakumat, Madurer e suo padre) sono ben sviluppati, complessi nella loro apparente semplicità, tanto che quello che Sakumat, il protagonista, compie nel passaggio da una stanza all’altra (e, di conseguenza, da un capo all’altro del mondo) è considerabile come un vero e proprio cammino di formazione che lo porterà a scoprire se stesso.

Lo stralisco è una fiaba delicata e dolce, adatta a grandi e piccini.
La mia prima lettura risale a quando frequentavo le elementari. L’ho riletto l’anno scorso e l’ho apprezzato ancora di più. Ai bambini piace perché è una bella storia, la storia di un bambino; ai grandi perché è una storia sul potere dell’amicizia e sulla vita, che sa essere fragile e forte al tempo stesso, come lo stralisco che si piega sotto il respiro del vento illuminando la notte.


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Miglior Blog Letterario 2010: la Libreria Immaginaria vince!

Ebbene sì.

La Libreria Immaginaria vince i Macchianera Blog Awards 2010 come miglior blog letterario.

Come prima collaboratrice ad essersi unita alla cara Delly non posso che essere felicissima e orgogliosa del successone riscosso a poco più di un anno dall’apertura della libreria.

Ora, come giustamente dice la capa qui, non ci resta che tornare a fare quello che ci riesce meglio per continuare a dimostrare che ci siamo meritati questo bel riconoscimento: scrivere di libri.

Complimenti a tutti i collaboratori!

Intanto, ad ogni modo, vi lascio qui l’elenco dei vincitori di ogni categoria.

Blogger dell’anno 2010: Alessandro Gilioli

Blog rivelazione 2010: Metilparaben

Migliore community: Facebook

Miglior blog d’opinione: Leonardo

Miglior blog collettivo: Spinoza

Miglior blog giornalistico: Il Post

Miglior blog tecnico-divulgativo: Andrea Beggi

Miglior blog televisivo: TvBlog

Miglior blog culinario: Giallo Zafferano

Miglior grafica di un blog: PensoScrivo

Miglior blog cinematografico: I 400 calci

Miglior blog erotico: Malafemmena

Miglior blog musicale: Radionation

Miglior blog letterario: La Libreria Immaginaria

Miglior disegnatore / vignettista: Stefano Disegni

Miglior blog fotografico: Paolo Virzì

Miglior blog ecologista / sociale: EcoBlog

Miglior blog sportivo: Storie di calcio

Miglior servizio Mobile: Repubblica.it

Miglior testata giornalistica online: Il Fatto quotidiano

Miglior post dell’anno: Celere alla Celere

Miglior podcast / trasmissione radio: Passaparola – di Marco Travaglio

Miglior social network o servizio per i blog: WordPress

Cattivo più temibile della blogosfera: Uomo morde cane

Miglior blog andato a puttane: Daniele Luttazzi Blog

Miglior blog politico: Nichi Vendola

Miglior blog personale: Freddy Nietzsche

Miglior “BILF” uomo: Stark

Milgior “BILF” donna: ninna_r

Premio alla carriera: Carlo Massarini


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Solomon Kane [rece].

Parliamo di Solomon Kane.

Ho visto il trailer e, lo ammetto senza troppi problemi, complice James Purefoy che ho amato in Roma (sì sì, lo so che dovevo parlarne, prometto che prima o poi lo faccio), ho desiderato ardentemente andare al cinema, spegnere il cervello e godermi lo spettacolo.

Ora. A parte un paio di insignificanti difficoltà tecniche che mi hanno portata a dover costringere il fidanzato ad abbandonare la sala giusto quando sul grande schermo appariva la scritta “Solomon Kane” (e comunque già lì, dopo cinque minuti di prologo, il sospetto di non trovarci di fronte a un capolavoro della storia del cinema ci era venuto), sono comunque riuscita a completare la visione bella spaparanzata sul letto di casa sempre insieme al mio fedelissimo e innamoratissimo Jack.

Potevo anche limitarmi ai primi cinque minuti. Questa è stata l’inevitabile conclusione: l’essere consci del fatto che il malore improvviso accusato al cinema non fosse causato dal mix tra Oki, Aperol Spritz e freddo glaciale del multisala. No.

Si trattava di un Segno che né io né Jack siamo riusciti a cogliere.

Perché diciamolo, parliamoci francamente: Solomon Kane è una grandissima cazzata un film un pochino deludente.

Nemmeno spegnendo il cervello sono riuscita a farmelo piacere almeno un po’ (e Jack che, in questa rinomata arte, in quanto uomo, mi batte senza problemi, ha confermato che nemmeno lui coi super poteri ce l’ha fatta).

A parte il proverbiale brivido che entrambi abbiamo sentito scendere lungo la schiena al vedere i sostegni in ferro all’interno del monastero in una delle prime scene… ma vogliamo parlare dei buchi, ma che dico?, delle voragini narrative?

Solo una, giusto per gradire: Solomon e la bella famigliola attraversano il bosco. Arrivano i cattivi. Solomon va in avanscoperta, ma quelli sono più furbi e, mentre lui fa il guardone, fanno il giro e attaccano i suoi compagni di viaggio. Solomon torna e si ritrova di fronte uno dei cattivoni che punta una lama alla gola del figlioletto più piccolo della famiglia di pellegrini.

Cattivo: “Se non fai come ti dico lo ammazzo!”

Solomon: “Ma non è vero, dai! E’ solo un ragazzino. Non lo ammazzi.”

Cattivo: “Guarda che io sono uno dei cattivi, Solomon, non è che mi faccia molti problemi.”

Tutti (pure gli altri cattivi): “Solomon! Guarda che lo ammazza! Che quello è cattivo! Difendilo! Combatti! Uccidilo!”

Solomon: “Ma vaaaa! Mica lo ammazza, ve lo dico io!”

Cattivo: [ammazza il ragazzino].

Dopo questo bellissimo momento di pathos, quelli dell’esercito nemico fan fuori il fratello maggiore, rapiscono la bella fanciulla (marchiata non si sa perché da una bambina che, toh, guarda!, s’è rivelata una strega) e feriscono a morte il padre.

Solomon, finalmente, capisce che forse quelli fanno sul serio e li ammazza a sua volta.

Tutto bruciato, cavalli dispersi.

Rimangono Solomon, il padre morente e la moglie di questo che, non si capisce come, non se l’è filata nessuno ed è rimasta illesa.

Padre: “Salva mia figlia e redimi la tua anima!” [e muore]

Moglie: “Sì, Solomon, salva nostra figlia!”

Solomon: “… ok!”

E parte. Si piglia l’unico cavallo rimasto e molla lì la donna nel bel mezzo del bosco, evidentemente lontana da forme di civiltà.

Va bene, Solomon! Ok! Vai così!

Parte. Scopre che il cattivo più cattivo di tutti è (ma non mi dire!) il fratello che lui pensava di aver ucciso prima di fuggire da casa.

Salva la sua bella.

E uno dice: il film ha fatto schifo fino ad ora. Magari ci sarà, non dico una piccola svolta porno, ma almeno un bacetto romantico.

No.

Lui la abbraccia.

Stacco e…

Voce fuori campo (che no, scusate ma a me ha ricordato la voce fuori campo di René Ferretti alla fine di Boris 3.)

Comunque, voce fuori campo che, mentre Solomon galoppa verso altre avventure, ci spiega come sia diventato un altro uomo ormai e, vinta la battaglia, abbia… rimandato la ragazza dalla madre???????

Al che io e Jack non abbiamo potuto fare altro che inscenare il dialogo:

Solomon/Jack: “E ora che ti ho salvata… va’ torna da tua madre, va! Io devo combattere il male!”

Meredith/Clarinette: “Ma io pensavo che, insomma… io, tu… noi… ti ho cucito pure il vestito, eh!” [sconcertata]

Solomon/Jack: “No, pensavi male. Torna da tua madre.”

Meredith/Clarinette: “… ok. Dov’è che la trovo?”

Solomon/Jack: “E quella… sta nel bosco. L’ho lasciata lì coi cadaveri ancora caldi di: tuo padre, tuo fratello grande e il marmocchio.”

Meredith/Clarinette: “Ah. E almeno le hai lasciato, chessò… un mezzo di trasporto o qualcosa per difendersi?” [preoccupata]

Solomon/Jack: [mentre prepara la sella per mollarla lì e partire per sconfiggere il male] “Mhm. No. La carrozza è andata in fiamme, l’unico cavallo l’ho preso per venirti a recuperare e tutte le armi mi servivano.” [Sale in sella] “Be’, ciao cara, eh…” [E parte.]

Meredith/Clarinette: “…” [basita]

L’unica spiegazione plausibile, ormai ne siamo certi, è questa (e si spiegherebbero così anche i collegamenti tra i due monologhi fuori campo finali): in realtà, gli sceneggiatori di Solomon Kane… sono loro!

GENIO! Ca-po-la-vo-ro! Insomma, lo possiamo proprio dire: questo è il Roberto Saviano dei film fantasy!


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Malamore – Concita De Gregorio [rece].

“… C’è una topolina che scopa le scale di casa (…).
A un certo punto, mentre scopa, trova un soldo. (…) Che fortuna ho avuto!, dice la topina. Cosa ci potrei fare? Se mi compro una caramella mi si rovinano i denti, e se mi compro…
e se mi compro… Fa ipotesi e le scarta. Infine trova: ecco, un nastro. Mi comprerò (…) un nastro rosa su cui l’amor si posa. (…) La topolina si lega il fiocco rosa sulla coda e immediatamente, come per una legge di natura, (…) arrivano i pretendenti. Non l’avevano notata finora, la vedono grazie al fiocco. (…)
C’è la fila in fondo alla scala. Arrivano un cane, un asino, un gallo. Tutti le dicono: topolina, sei deliziosa, ti vuoi sposare con me? Allora lei fa loro un test perché è furba, sempre furba.
Chiede a ciascuno: dimmi cosa farai di notte. (…) Chiede anche: fammi sentire la tua voce che ti voglio conoscere meglio. Il cane abbaia, l’asino raglia, il gallo fa chicchirichì. (…)
Da ultimo arriva il gatto. Mellifluo, vellutato, seduttore. Bello. Un gatto, comunque, e lei è un topo. Lui fa miao. La topolina cade in estasi: sei tu, eccoti, sei tu il mio amore. Ti sposo.
Annuncia le nozze. Gli amici topi le dicono: sei pazza, è un gatto, ti mangerà. Lei risponde loro a malapena, con indulgente sufficienza: questo gatto mi ama, mangia gli altri topi ma non mangerà me, fidatevi. Sarò la prima topolina a domare un gatto, aspettate e vedrete: con me diventerà un altro, ne farò un gatto che mangia verdura. Si sposano. Un minuto dopo le nozze il gatto le si avvicina, voi direste per baciarla. E invece… La mangia, naturalmente. (…) resta solo il fiocco rosa…”

[“La rateta que escombrava l’escaleta”, racconto popolare catalano (tratto da “Malamore”, pagg. 16-17)]

Una delle prime cose che Concita De Gregorio ci dice, nell’introduzione, è che “Malamore”, contrariamente a quanto molti pensano, non è un libro sulla “violenza domestica”, bensì una raccolta di storie che gira attorno a un altro argomento, speculare alla violenza domestica: il motivo per cui, in un’epoca di donne intelligenti ed emancipate, donne che, dice l’autrice, “potrebbero aspirare a fare l’astronauta e non la moglie, che non dovrebbero aver bisogno dei soldi e della tutela di nessuno”, queste stesse donne sono disposte a sopportare senza ribellarsi la violenza maschile.

La De Gregorio sostiene che le donne, fin da bambine, sono allevate a sopportare, ad avere una certa confidenza col dolore che gli uomini non hanno.

Sono abituate a giustificare il comportamento dei loro uomini violenti perché si sentono in dovere di aiutarli, di scusarli. Accettano di essere valvole di sfogo della frustrazione maschile, giustificando addirittura ogni maltrattamento, credendolo una sorta di “prezzo da pagare” per la propria libertà fuori dalle mura domestiche.
Le donne massacrate, ci dice l’autrice, hanno quasi sempre la “colpa” di aver negato qualcosa a un uomo: non hanno voluto rimanere con lui, non hanno voluto abortire, non hanno voluto andarsene da casa. Si tratta quindi di rivalsa o vendetta, una sorta di revival di un delitto d’onore che è stato sì cancellato dal nostro legislatore, ma che nella prassi continua a vivere e ad essere, il più delle volte, giustificato dal senso comune.

La donna moderna ritratta in Malamore è quella che lavora tutto il giorno e al contempo riesce ad essere madre, moglie e donna delle pulizie, in un meccanismo così radicato nella nostra cultura da essere per quasi tutti normale. La donna moderna, dice l’autrice, è quella che si rassegna al fatto che se sia lei che il marito hanno un’importante riunione di lavoro, sarà lei a doverla disdire per accompagnare il figlio dal dentista, non il consorte.

E il brutto è che la cosa non provoca dissenso né stupore: lei è la moglie, la madre, è normale che si occupi dei figli. Il marito non può certo perdere un’ora di lavoro. E’ l’uomo di casa che deve pensare alla carriera, la donna può anche metterla in secondo piano.

Prima viene la famiglia. Per lei.

Concita De Gregorio non ci pone però di fronte a storie ordinarie. Ci racconta fiabe, film, fumetti e storie di donne famose. C’è la fiaba di Barbablù, quella della Rateta (riportata nella citazione iniziale), la storia della maga Circe. Si parla de “La sposa cadavere” di Tim Burton, di Eva Kant (la coraggiosa fidanzata di Diabolik), di Artemisia Gentileschi e di Dora Maar.

Il suo stile è semplice, chiaro, privo di frivolezze e straordinariamente diretto.

E’ un libro, in fin dei conti, breve e facile da leggere. Poco tecnico, nonostante l’argomento trattato. Eppure il contenuto è così denso di significato e, purtroppo, così vero, che capita spesso di soffermarsi a pensare. A riflettere su come sia possibile accettare ancora oggi, nonostante tutto, di credere che le donne abbiano il dovere di sopportare.

E’ una concezione, quella di Concita De Gregorio, che si può condividere o meno. Spesso è quasi provocatoria in quel suo dipingere la cruda realtà in cui vive ogni donna, di qualsiasi età, professione e ceto. Così provocatoria che può urtare un po’. Ma aiuta a riflettere e a guardare con occhi diversi le nostre mamme, le nostre sorelle, le nostre amiche.

E anche noi stesse.

Il malamore è gramigna, cresce nei vasi dei nostri balconi. Sradicarlo costa più che tenerselo. Dargli acqua ogni giono, alzare l’asticella della resistenza al dolore è una folle tentazione che può costare la vita.”


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Rina ne uccide quattro – Vittorio Orsenigo / Cronache Nere – Dino Buzzati [rece].

“… La corrente elettrica nel cervello ne sa fare di cose!
Anzi, più che farle le disfa e tu non sai più niente di niente: se ti portano da mangiare, però, sai che devi mangiare, se senti dolore alla pancia chiedi di andare al cesso.
Chiedi di andare al cesso e ti lasciano andare; anzi, ti prendono la mano, ti fanno accomodare sulla seggetta, perché nel cesso dell’infermeria non è come nelle celle, e tu, avendo appena fatto i conti con la corrente elettrica, non hai vergogna e la fai in loro presenza mentre dicono: «Bene, le funzioni primarie ci sono, speriamo che sia l’ultima volta che le diamo la scossa». Qualcuno, mentre io la faccio senza vergogna, come se parlasse da chissà dove, dal cielo forse, risponde: «Si vedrà, non mettiamo limiti alla divina provvidenza». E il primo, quello che ha detto: «Speriamo», comincia a ridere, ma poi dice: «Pulisciti e alzati, ormai sei a posto, torna in cella e attenta a quello che fai».
Non è troppo villano, fa il dottore, forse è un dottore…”

Di solito leggo fino in fondo qualsiasi romanzo mi capiti fra le mani.
A costo di arrancare fino all’ultima pagina. A costo di reprimere l’istinto di autoconservazione che mi ordina di gettare dalla finestra quella robaccia che mi ostino a leggere.
A costo di farmi venire il nervoso.
Io leggo fino in fondo qualsiasi romanzo mi capiti fra le mani.
Ma questa volta no. Questa volta non ce l’ho fatta e, anzi, è stato con un sorriso estatico che mi sono appellata a quello che, stando a Pennac, è il terzo diritto imperscrittibile di ogni lettore: il diritto di non finire un libro.

Il romanzo in questione si intitola Rina ne uccide quattro, sottotitolo: il romanzo sulla Belva di via San Gregorio.
La storia che dà il via a tutto è tanto raccapricciante quanto semplice: Rina Fort, il 29 novembre 1946 in via San Gregorio (nei pressi di Corso Buenos Aires, a Milano), uccide barbaramente la moglie del suo amante e i suoi tre figlioletti.
Si tratta di uno dei più efferati omicidi del secondo dopoguerra, un caso che ha scosso l’opinione pubblica e scomodato gli uomini di legge e di scienza di tutta Italia. Un caso che ha segnato la storia della cronaca nera del nostro Paese, documentato passo passo dai giornali con servizi ricchi di dettagli e fotografie della scena del delitto (vista, si badi bene, prima dai fotografi e dai giornalisti e, solo in un secondo momento, dalle forze dell’ordine).
Ad ogni modo, questo per dire che non è per nulla strano che, dopo anni, se ne parli ancora e si decida addirittura di scriverci su un romanzo.
Lo fa Vittorio Orsenigo, autore, appunto, di Rina ne uccide quattro. Il suo intento, si direbbe dalla nota introduttiva che lui stesso ha scritto, è di raccontare quello che è successo a Rina Fort dopo l’omicidio, all’interno del manicomio giudiziario di Perugia. Non s’è messo in testa di raccontare la verità, questo lo dice anche lui in un brevissimo “mea culpa”, ma a quanto pare vuole far vivere ai suoi lettori il dramma che si consuma, dopo il delitto, nella testa dell’assassina.
Ecco. La premessa è buona. Il materiale, viste le centinaia di perizie sulla Fort, non manca affatto.
Quella che manca, in compenso, è la capacità di narrare in modo chiaro e di coinvolgere il lettore.
Perché io capisco che il signor Orsenigo desideri condurci all’interno di una mente malata e stremata dal dolore e dalla prigionia. Capisco perfettamente che voglia rispecchiare la pazzia di Rina Fort nel suo stile. Lo capisco, davvero.
Però è un esercizio assai difficile. Un esercizio che, finora, ho visto riuscir perfettamente solo a un tale che di cognome faceva Dostoevskij. E dici poco.

Lo stile di Orsenigo è allucinato. Non trovo altra parola. Si salta da un punto di vista all’altro, tanto che il lettore non solo è spiazzato (il che potrebbe essere, di per sé, una buona cosa), ma si perde non tanto nei meandri della mente di un assassina quanto in un labirinto di idee, pensieri, descrizioni, luoghi.
Si fa addirittura confusione coi soggetti. Nel corso del capitolo IV, per esempio, quando viene descritta la procedura di elettroshock cui viene sottoposta la Fort, si passa da una narrazione impersonale, a metà tra il punto di vista del narratore e quello della protagonista (“… quanto ci ragiona Caterina su quel lavoro da sarta!…”) a una narrazione in prima persona (riportata nella citazione iniziale). Il tutto senza preavviso, senza nemmeno uno stacco, se non logico almeno grafico.
Senza contare che non c’è un filo logico né temporale. Nulla.
Certo, a meno che dopo pagina 100 qualcosa non cambi, ma dando una sfogliata al tutto non mi pare proprio che accada. E comunque sarebbe troppo tardi.
Da lettrice sono rimasta alquanto delusa.

Ma non disperino coloro che sul caso vorrebbero sapere di più! Ne parla egregiamente Dino Buzzati nelle sue Cronache nere, un libricino che penso sia ormai fuori stampa (io l’ho trovato in una libreria di provincia in un’edizione della casa editrice Theoria, collana Riflessi). Nemmeno 100 paginette, ma chiare, estremamente interessanti e scritte, be’, scritte da Dino Buzzati, il che è di per sé una garanzia.

La stessa storia, gli stessi protagonisti. Ma è lo stile a fare la differenza.


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Novelle fatte a macchina – Gianni Rodari [rece].

“Dispettosetti, gli dei delle antiche favole.
Una volta Giove offende Apollo, magari solo per cavarsi un capriccio. Apollo se la lega al dito e, appena può, gli rende pan per pizza, ammazzando un certo numero di Ciclopi.
Dice: cosa c’entra il burro con la ferrovia e cosa c’entrano i Ciclopi con Giove?
C’entrano sì, perché sono i suoi fornitori di fulmini. Giove li tiene come la rosa al naso: non c’è nessun’altra ditta che produce fulmini col marchio della buona qualità come quelli. Quando gli vanno a dire che Apollo gli ha sabotato la produzione, Giove si arrabbia sul serio e gli manda un avviso di reato. Apollo si deve presentare per forza, perché Giove è il re degli dei.
­– Così e così, – dice Giove. – Per punizione andari in esilio sulla Terra per sette anni, e per sette anni servirai come schiavo in casa di Admeto, re di Tessaglia…”

Problemi a far addormentare i vostri figli? Il pargolo cui fate da baby-sitter non ne vuole sapere di star buono? La ragazzina cui fate ripetizioni non legge nemmeno se le puntate una pistola alla tempia?
Niente paura! E’ arrivato Gianni Rodari!
Il signor Rodari lo conosciamo o meglio, conosciamo la sua penna: una signorina alquanto simpatica, a dirla tutta, sempre pronta a regalarci un sorriso e a raccontarci storie al limite del surreale in quel suo stile a metà tra il gergo familiare e la narrazione più pura, con quelle parole che, oggi, ci suonano un po’ strane, un po’ arcaiche e ricercate.
Novelle fatte a macchina altro non è se non una raccolta di racconti brevi. Si va dalla storia di Angeloni Gian Gottardo (conosciuto da tutti, a Civitavecchia, come Trottino, ma detto Grillo, che era già il soprannome di suo nonno), a quella della bambola a transistor che snobba i giochi da signorina e vuole diventare un maschiaccio, passando per una versione alquanto originale della morte di Giulio Cesare, fino ad arrivare alla storia della bella Miss Universo dagli occhi color verde-venere.
Ci sono proprio tutti, insomma, tanto che il signor Rodari ha fatto scomodare perfino i classici greci per dargli una mano (basti pensare al racconto intitolato “Per chi filano le tre vecchiette?” dal quale è tratta la citazione iniziale), catapultandoli nel mondo moderno senza che loro, tra l’altro, ne rimangano sconvolti più di tanto.
Ha addirittura chiamato gli Extraterrestri, da Marte! Come si può non correre a dar loro il benvenuto?

Scherzi a parte. Rodari non si smentisce mai, col suo stile frizzante e un po’ impertinente che ha il potere di divertire tutti, grandi e piccini.
Provatelo, coi bimbetti irrequieti fa miracoli. Garantisco per esperienza.