Appunti di diritto (in)civile.

Bibliotecaria mancata. Studentessa quando capita. Giurista in divenire.


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Nella cattiva sorte. [racconto]

[Racconto temporaneamente rimosso in quanto partecipante a concorso letterario]

{Ricordo, viste le brutte esperienze passate, che questo racconto (come del resto tutto quello che è scritto in questo blog) è protetto da una Licenza Creative Commons. Per maggiori informazioni sulla possibilità di condividerlo vi prego di consultare l’apposito banner posto nella colonna qui a fianco. Rimango a disposizione per ulteriori informazioni (dirittoincivile@gmail.com). Grazie. }


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Violenza domestica: chi è il maltrattatore?

La violenza contro le donne va inserita nel più generale quadro della violenza di genere ed è oggi riconosciuta dalla comunità internazionale come una violazione dei diritti umani.
Include ogni azione violenta, sia essa fisica o psicologica, perpetrata da uomini o da istituzioni patriarcali nei confronti delle donne in quanto appartenenti al genere femminile.
Molte culture, credenze e persino leggi e istituzioni legittimano ancora oggi la violenza contro le donne, diffusa come piaga sociale (colpisce donne di qualsiasi età, religione, cultura, livello di istruzione, estrazione sociale) e, nonostante questo, spesso dimenticata.
A differenza di quanto si potrebbe credere, il tipo di violenza contro le donne più diffusa è quella perpetrata in famiglia dal proprio partner o ex partner: la violenza domestica.

Ma chi è il maltrattatore?
Quando si pensa a un uomo violento, subito il pensiero va a un emarginato sociale, individuabile a prima vista come persona pericolosa, magari vestito male, con qualche tatuaggio. Tutto muscoli. Un ribelle, insomma, da cui tenersi ben alla larga.
Non è così.
L’85% dei maltrattatori è costituito da uomini stimati socialmente, impiegati o liberi professionisti. E i dati sono confermati dalla pratica: nella mia seppur breve esperienza ho avuto per lo più a che fare con donne maltrattate il cui compagno era stimatissimo socialmente (volontari, consiglieri comunali e via dicendo). Si tratta di soggetti in grado di controllarsi fuori dall’ambiente domestico, violenti solo con la propria partner.
Più di rado (il restante 15%) si tratta, invece, di uomini già noti ai Servizi Sociali e alle Forze dell’Ordine perché violenti anche in altri contesti oltre a quello familiare.
Spesso si tratta di tipi possessivi, gelosi e, in quanto tali, insicuri e fortemente dipendenti dalla propria vittima (a tal punto che, se hanno paura di perderla, possono arrivare a ucciderla). Individui deboli che sentono il bisogno di esercitare potere sulla loro compagna e di controllarla, ricorrendo a mezzi che, di fatto, sono gli stessi per ogni situazione di violenza domestica (per approfondire si veda l’articolo sulla spirale della violenza domestica).
La maggior parte dei maltrattatori ha una visione rigida e tradizionale della vita e dei ruoli fra uomini e donne, visione che il più delle volte è conseguenza della cultura e dell’educazione cui sono stati sottoposti. E’, infatti, circa il 60% di essi ad aver subito maltrattamenti o ad essere stato spettatore di violenza.

Diverse teorie sono state elaborate nel corso degli anni, prima fra tutte quella che vorrebbe l’uomo violento malato, da curare. Si tratta di una teoria che non trova riscontri psicologici, tanto più che, come appena visto, il più delle volte i violenti lo sono solo con le loro vittime e questo non corrisponde al profilo di persone malate di mente.
Altra teoria è quella della c.d. famiglia conflittuale che mette sullo stesso piano vittima e carnefice, senza tener conto che nel caso di specie non si parla di conflitto bensì di violenza e non ci si trova di fronte a una situazione simmetrica quanto asimmetrica. E con questo si risponde anche a quelli che ogni volta scattano dicendo che allora “qualsiasi lite è considerabile violenza domestica”. Certo che no. La conflittualità fa parte della vita di coppia, ma un litigio “normale” vede i partners su un piano di parità e non di supremazia dell’uno sull’altra.
Ulteriore teoria descrive la violenza come “perdita di controllo” ed è contraddetta dallo stesso ragionamento svolto in merito al “violento malato”.

Alla luce di quanto appena detto, dunque, le cause della violenza domestica sono raramente imputabili a origini fisiologiche o biologiche.

Quanto all’abuso di alcol e stupefacenti, non è credibile a mio parere chi individua negli stessi le uniche cause dirette della violenza. Più volte mi è capitato di sentire ragionamenti come: “mio marito è violento, ma poverino è colpa dell’alcol. Se non beve non mi pesta, si limita a strillarmi contro”. Alcol e droghe non sono la causa del maltrattamento (che, anche nel caso appena descritto, sussiste comunque dal punto di vista psicologico), ma incrementano il comportamento violento poiché riducono le inibizioni e la capacità di autocontrollo.

Quanto alla sostanza, il comportamento violento può manifestarsi, dal punto di vista fisico, nei modi più svariati: spintoni, schiaffi e pugni, morsi, sputi, bruciature, tentativo di strangolamento, tortura, aggressione con arma da fuoco, pestaggio durante la gravidanza, costringere la partner ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà, commettere atti sessuali violenti o degradanti, e così via.
Altrettante possono essere le condotte in cui si sostanzia la violenza psicologica: insulti, giochi mentali, denigrazione, imposizione di comportamenti inutili e degradanti (pretendere che il pavimento venga rilavato più e più volte o – e questa l’ho sentita davvero – arrivare alle minacce e alle botte perché l’insalata non è stata sciacquata con una certa acqua e un certo quantitativo di volte, etc.), menzogne, produrre l’isolamento della vittima, eccessiva gelosia, minaccia di sottrarre i figli o di far del male agli stessi, prendere decisioni importanti senza consultare la compagna, usare la conoscenza di abusi precedenti per far pressione sulla partner, e via dicendo.

Questo un quadro generale. Riduttivo, ovvio, ma a mio parere utile per introdurre il discorso sulla violenza domestica dopo il post precedente.

Chiudo con un interrogativo: un uomo violento può cambiare?
Aspetto le vostre considerazioni.

Alla prossima.


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L’assassino. [racconto]

Camminava lentamente. Un passo cadenzato, pesante e sbilenco. Il passo degli ubriachi.
La luce lattiginosa del lampione ne illuminava la figura emaciata. Gli occhi, acquosi, semichiusi, erano immobili, intenti a fissare un punto non meglio precisato sull’asfalto.
L’uomo, perché nonostante tutto almeno nelle fattezze era un uomo, si fermò. Alla sua destra, nello specchio buio del fiume, scintillava una falce di luna.
“Vecchio mio, stai proprio messo male”. Era una voce baritonale, impastata, ad aver parlato. La sua voce. E questo suono parve coglierlo di sorpresa.
Non aveva mangiato. Nulla. In compenso aveva bevuto. Troppo. La testa bionda gli girava così tanto, leggera com’era, che la debolezza del corpo passava in secondo piano.
Sedette sulla riva del corso d’acqua, ginocchia piegate e braccia sottili a stringere le gambe al petto. Una ciocca gli cadde sulla fronte. L’ignorò.
Come si chiamava la donna di quel pomeriggio? Carine, Carole, Caroline… forse Vivienne per quel che gli poteva importare al momento. L’aveva persa. Ne ricordava ancora l’odore, il profumo costoso di qualche boutique parigina cui lui non poteva nemmeno avvicinarsi, di sicuro. Rivide mentalmente l’invitante curva del seno. Ripassò i contorni del collo bianco e delicato. Pulsante.
Strinse i pugni, unghie nere nella carne, alla fitta che gli attraversò lo stomaco risvegliato dall’aria notturna e dal ricordo. Aveva commesso un errore a distrarsi, a lasciarla sfuggire.
Gli piaceva guardare il suo cibo morire, esalare l’ultimo, breve respiro. Adorava vedere il terrore negli occhi delle sue vittime, quello stesso terrore che lasciava spazio prima all’odio, quindi alla supplica, infine alla quieta rassegnazione. Il più delle volte, almeno.
Era, sempre, una meravigliosa scarica di adrenalina. Il sangue che sgorgava dalla tenerezza del collo, che si portava via la vita. Così caldo. Così dolce.
E poi nascondere i corpi. Prepararli. Per lui, solo per lui. Come potevano rifiutargli attenzioni le donne, da morte? Gli dedicavano serate intere. Notti macabre, le avrebbe definite la gente. Abominio, avrebbero detto. Meraviglia, diceva lui.
Il sapore della carne umana non ha eguali. “Maledettamente vero”, rispose al suo stesso pensiero.
Poi sorrise. Si alzò. In lontananza vedeva danzare una mantellina rossa.
Era giunto il momento di tornare a caccia.


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“Giornalisti” INcivili. Il caso Sarah Scazzi.

Sto per spegnere il mac e andare a nanna. Ma prima, mi dico, vediamo che c’è di nuovo: facciamo una capatina su Twitter. E qui inizio a vedere una sfilza di tweets contenenti le parole “Chi l’ha visto” e “vergogna”.

Al che do una controllata in giro e cosa ti vado a scoprire?

Che quei dementi di Chi l’ha visto, appresa in diretta la notizia della confessione dello zio di Sarah Scazzi, la quindicenne pugliese scomparsa ad agosto, secondo cui il corpo della ragazzina si troverebbe in un pozzo (come più o meno tutti, purtroppo, ormai ci aspettavamo), hanno avuto la bella idea di rendere partecipe della notizia la madre di Sarah, in collegamento dalla casa dello zio reo confesso.

Attualmente, secondo quanto dicono i quotidiani, il corpo non sarebbe ancora stato trovato, ma gli agenti lo stanno cercando nelle campagne tra Avetrana e Nardò. Dovrebbe trovarsi, stando alla confessione dello zio, (Michele Misseri) in un pozzo o in un casolare, luogo in cui l’uomo avrebbe lasciato la nipote dopo aver abusato di lei nella cantina di casa sua prima di strangolarla.

E la gente ha avuto anche il coraggio di lamentarsi perché l’atteggiamento di quella povera donna, che si è sentita dire “suo cognato ha confessato: ha ucciso sua figlia e ora si sta cercando il corpo” è stato freddo. Ma scherziamo? Bisognerebbe indignarsi. Null’altro.

Perché questo non è “diritto di cronaca”. Questo è speculare sul dolore altrui. E ogni volta è sempre la stessa storia.

E’ stato così per Tommy, quando si diceva di tutto e di più sui genitori.

E’ stato così per il terremoto in Abruzzo, quando si andavano a filmare con le telecamere le persone in lacrime. E quando si davano al Tg1 le notizie sullo share raggiunto grazie alle loro edizioni speciali sul sisma.

E’ stato così anche stasera. E non oso nemmeno immaginare come sarà domani.

Quando invece ci sarebbe bisogno solo di silenzio. E rispetto per il dolore di una madre.

Chi l’ha visto, vergogna.

 

[Aggiornamento (10.30): “Prima ho strangolato Sarah, poi l’ho spogliata e violentata”, queste le parole di Michele Misseri. Attorno alle 2 di questa notte il corpo della quindicenne è stato ritrovato in un pozzo, coperto d’acqua e pietre, in posizione fetale. La svolta sarebbe giunta grazia a un’intercettazione ambientale: “Tanto lo so che l’ha presa lui…” ha detto in lacrime Sabrina Misseri (la cugina di Sarah che l’aspettava, il 26 agosto, per andare al mare) alla madre.]


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La spirale della violenza domestica.

Dal 2000 ad oggi più di 1100 donne sono state uccise dal proprio partner. Sembra il dato di una guerra e forse lo è. Una guerra tra generi, tra uomini e donne, tra carnefici e vittime. Una guerra nascosta tra le mura domestiche, ritenuta quasi “privata”. Una guerra dimenticata.

La violenza domestica, spesso, si manifesta in modo subdolo. Non sempre si tratta di violenza fisica o almeno, non sempre nasce direttamente come tale, bensì sorge come violenza psicologica, difficile da riconoscere in principio. Una volta entrata nella cosiddetta spirale della violenza, tuttavia, è difficile per la donna uscirne. Ci vuole coraggio, ci vuole determinazione. Ci vuole quella cognizione di sé, quella sicurezza che il maltrattatore tenta in tutti i modi far venire meno in modo da avere il controllo totale, fisico e, ancor prima, psicologico, sulla sua vittima.

Ma vediamo come si articola questa spirale della violenza.

1. Intimidazione: l’uomo fa di tutto perché la partner viva in uno stato costante di paura. Minaccia di lasciarla, di andarsene se lei non lo ascolta, se non si sottomette. Se non ubbidisce. Spesso questa prima fase passa in sordina, confusa con quella che la nostra cultura ci indica come gelosia, partendo da espressioni comunissime, una per tutte: “Se fai questo (i.e. esci con le amiche, ti comporti in un certo modo, etc.) vuol dire che non mi ami”.

2. Isolamento: a seguito delle continue richieste e lamentele del compagno, la donna è spinta a isolarsi dal resto del mondo: si allontana dalla famiglia, dagli amici, dai colleghi di lavoro. In questo modo risulta ancora più in balia dell’uomo, sola se non fosse per lui. In questo modo il maltrattatore acquista maggiore controllo e potere.

3. Svalorizzazione: l’apice della violenza psicologica. I comportamenti dell’uomo sono volti a far nascere nella compagna insicurezza, senso di inadeguatezza e incapacità, che presto portano a una significativa perdita dell’autostima. La vittima, ormai sempre più succube, tende a giustificare quanto le accade.

4. Segregazione: non solo l’uomo allontana la donna da quelli che erano i suoi precedenti contatti (come accade nella fase dell’isolamento), ma la priva anche dei contatti casuali (i commercianti, il medico di base, i vicini di casa), quelli che la portano fuori di casa nella vita di tutti i giorni.

5 e 6. Violenza fisica e violenza sessuale: alla violenza psicologica segue e/o si accompagna la violenza fisica che spesso sfocia nella violenza sessuale e questo accade, si badi, anche nel caso in cui la donna si sente obbligata ad avere rapporti sessuali pur non opponendo evidente resistenza (ad esempio dopo essere stata picchiata).

7. False riappacificazioni: a momenti di violenza si alternano momenti di pentimento. E sono proprio questi momenti, in cui il partner sembra tornare quello di cui si è innamorata tempo prima, a spingere la donna a perdonare, a giustificare, a sperare in un cambiamento perenne. Un cambiamento che non arriva mai.

8. Ricatto sui figli: se le minacce e i maltrattamenti sono quotidiani o tali comunque da scatenare la paura della donna, allora giunge la ribellione. A questo punto l’uomo fa leva sui figli: minaccia di toglierli alla partner qualora non torni ad essere remissiva. A sopportare in silenzio.

Troppe donne sono vittime, a tutt’oggi, della violenza domestica. Una violenza nascosta, si diceva all’inizio, ma non per questo meno pericolosa. Semmai il contrario. E’ la paura a farci dimenticare che esiste. La vergogna. E’ più comodo fare finta di niente, girarsi dall’altra parte, alzare il volume della tv se sentiamo le urla delle nostre vicine di casa al di là del muro del salotto. Per non sentire.

Per fingere che sia solo un’altra leggenda metropolitana.


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Malamore – Concita De Gregorio [rece].

“… C’è una topolina che scopa le scale di casa (…).
A un certo punto, mentre scopa, trova un soldo. (…) Che fortuna ho avuto!, dice la topina. Cosa ci potrei fare? Se mi compro una caramella mi si rovinano i denti, e se mi compro…
e se mi compro… Fa ipotesi e le scarta. Infine trova: ecco, un nastro. Mi comprerò (…) un nastro rosa su cui l’amor si posa. (…) La topolina si lega il fiocco rosa sulla coda e immediatamente, come per una legge di natura, (…) arrivano i pretendenti. Non l’avevano notata finora, la vedono grazie al fiocco. (…)
C’è la fila in fondo alla scala. Arrivano un cane, un asino, un gallo. Tutti le dicono: topolina, sei deliziosa, ti vuoi sposare con me? Allora lei fa loro un test perché è furba, sempre furba.
Chiede a ciascuno: dimmi cosa farai di notte. (…) Chiede anche: fammi sentire la tua voce che ti voglio conoscere meglio. Il cane abbaia, l’asino raglia, il gallo fa chicchirichì. (…)
Da ultimo arriva il gatto. Mellifluo, vellutato, seduttore. Bello. Un gatto, comunque, e lei è un topo. Lui fa miao. La topolina cade in estasi: sei tu, eccoti, sei tu il mio amore. Ti sposo.
Annuncia le nozze. Gli amici topi le dicono: sei pazza, è un gatto, ti mangerà. Lei risponde loro a malapena, con indulgente sufficienza: questo gatto mi ama, mangia gli altri topi ma non mangerà me, fidatevi. Sarò la prima topolina a domare un gatto, aspettate e vedrete: con me diventerà un altro, ne farò un gatto che mangia verdura. Si sposano. Un minuto dopo le nozze il gatto le si avvicina, voi direste per baciarla. E invece… La mangia, naturalmente. (…) resta solo il fiocco rosa…”

[“La rateta que escombrava l’escaleta”, racconto popolare catalano (tratto da “Malamore”, pagg. 16-17)]

Una delle prime cose che Concita De Gregorio ci dice, nell’introduzione, è che “Malamore”, contrariamente a quanto molti pensano, non è un libro sulla “violenza domestica”, bensì una raccolta di storie che gira attorno a un altro argomento, speculare alla violenza domestica: il motivo per cui, in un’epoca di donne intelligenti ed emancipate, donne che, dice l’autrice, “potrebbero aspirare a fare l’astronauta e non la moglie, che non dovrebbero aver bisogno dei soldi e della tutela di nessuno”, queste stesse donne sono disposte a sopportare senza ribellarsi la violenza maschile.

La De Gregorio sostiene che le donne, fin da bambine, sono allevate a sopportare, ad avere una certa confidenza col dolore che gli uomini non hanno.

Sono abituate a giustificare il comportamento dei loro uomini violenti perché si sentono in dovere di aiutarli, di scusarli. Accettano di essere valvole di sfogo della frustrazione maschile, giustificando addirittura ogni maltrattamento, credendolo una sorta di “prezzo da pagare” per la propria libertà fuori dalle mura domestiche.
Le donne massacrate, ci dice l’autrice, hanno quasi sempre la “colpa” di aver negato qualcosa a un uomo: non hanno voluto rimanere con lui, non hanno voluto abortire, non hanno voluto andarsene da casa. Si tratta quindi di rivalsa o vendetta, una sorta di revival di un delitto d’onore che è stato sì cancellato dal nostro legislatore, ma che nella prassi continua a vivere e ad essere, il più delle volte, giustificato dal senso comune.

La donna moderna ritratta in Malamore è quella che lavora tutto il giorno e al contempo riesce ad essere madre, moglie e donna delle pulizie, in un meccanismo così radicato nella nostra cultura da essere per quasi tutti normale. La donna moderna, dice l’autrice, è quella che si rassegna al fatto che se sia lei che il marito hanno un’importante riunione di lavoro, sarà lei a doverla disdire per accompagnare il figlio dal dentista, non il consorte.

E il brutto è che la cosa non provoca dissenso né stupore: lei è la moglie, la madre, è normale che si occupi dei figli. Il marito non può certo perdere un’ora di lavoro. E’ l’uomo di casa che deve pensare alla carriera, la donna può anche metterla in secondo piano.

Prima viene la famiglia. Per lei.

Concita De Gregorio non ci pone però di fronte a storie ordinarie. Ci racconta fiabe, film, fumetti e storie di donne famose. C’è la fiaba di Barbablù, quella della Rateta (riportata nella citazione iniziale), la storia della maga Circe. Si parla de “La sposa cadavere” di Tim Burton, di Eva Kant (la coraggiosa fidanzata di Diabolik), di Artemisia Gentileschi e di Dora Maar.

Il suo stile è semplice, chiaro, privo di frivolezze e straordinariamente diretto.

E’ un libro, in fin dei conti, breve e facile da leggere. Poco tecnico, nonostante l’argomento trattato. Eppure il contenuto è così denso di significato e, purtroppo, così vero, che capita spesso di soffermarsi a pensare. A riflettere su come sia possibile accettare ancora oggi, nonostante tutto, di credere che le donne abbiano il dovere di sopportare.

E’ una concezione, quella di Concita De Gregorio, che si può condividere o meno. Spesso è quasi provocatoria in quel suo dipingere la cruda realtà in cui vive ogni donna, di qualsiasi età, professione e ceto. Così provocatoria che può urtare un po’. Ma aiuta a riflettere e a guardare con occhi diversi le nostre mamme, le nostre sorelle, le nostre amiche.

E anche noi stesse.

Il malamore è gramigna, cresce nei vasi dei nostri balconi. Sradicarlo costa più che tenerselo. Dargli acqua ogni giono, alzare l’asticella della resistenza al dolore è una folle tentazione che può costare la vita.”


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Rina ne uccide quattro – Vittorio Orsenigo / Cronache Nere – Dino Buzzati [rece].

“… La corrente elettrica nel cervello ne sa fare di cose!
Anzi, più che farle le disfa e tu non sai più niente di niente: se ti portano da mangiare, però, sai che devi mangiare, se senti dolore alla pancia chiedi di andare al cesso.
Chiedi di andare al cesso e ti lasciano andare; anzi, ti prendono la mano, ti fanno accomodare sulla seggetta, perché nel cesso dell’infermeria non è come nelle celle, e tu, avendo appena fatto i conti con la corrente elettrica, non hai vergogna e la fai in loro presenza mentre dicono: «Bene, le funzioni primarie ci sono, speriamo che sia l’ultima volta che le diamo la scossa». Qualcuno, mentre io la faccio senza vergogna, come se parlasse da chissà dove, dal cielo forse, risponde: «Si vedrà, non mettiamo limiti alla divina provvidenza». E il primo, quello che ha detto: «Speriamo», comincia a ridere, ma poi dice: «Pulisciti e alzati, ormai sei a posto, torna in cella e attenta a quello che fai».
Non è troppo villano, fa il dottore, forse è un dottore…”

Di solito leggo fino in fondo qualsiasi romanzo mi capiti fra le mani.
A costo di arrancare fino all’ultima pagina. A costo di reprimere l’istinto di autoconservazione che mi ordina di gettare dalla finestra quella robaccia che mi ostino a leggere.
A costo di farmi venire il nervoso.
Io leggo fino in fondo qualsiasi romanzo mi capiti fra le mani.
Ma questa volta no. Questa volta non ce l’ho fatta e, anzi, è stato con un sorriso estatico che mi sono appellata a quello che, stando a Pennac, è il terzo diritto imperscrittibile di ogni lettore: il diritto di non finire un libro.

Il romanzo in questione si intitola Rina ne uccide quattro, sottotitolo: il romanzo sulla Belva di via San Gregorio.
La storia che dà il via a tutto è tanto raccapricciante quanto semplice: Rina Fort, il 29 novembre 1946 in via San Gregorio (nei pressi di Corso Buenos Aires, a Milano), uccide barbaramente la moglie del suo amante e i suoi tre figlioletti.
Si tratta di uno dei più efferati omicidi del secondo dopoguerra, un caso che ha scosso l’opinione pubblica e scomodato gli uomini di legge e di scienza di tutta Italia. Un caso che ha segnato la storia della cronaca nera del nostro Paese, documentato passo passo dai giornali con servizi ricchi di dettagli e fotografie della scena del delitto (vista, si badi bene, prima dai fotografi e dai giornalisti e, solo in un secondo momento, dalle forze dell’ordine).
Ad ogni modo, questo per dire che non è per nulla strano che, dopo anni, se ne parli ancora e si decida addirittura di scriverci su un romanzo.
Lo fa Vittorio Orsenigo, autore, appunto, di Rina ne uccide quattro. Il suo intento, si direbbe dalla nota introduttiva che lui stesso ha scritto, è di raccontare quello che è successo a Rina Fort dopo l’omicidio, all’interno del manicomio giudiziario di Perugia. Non s’è messo in testa di raccontare la verità, questo lo dice anche lui in un brevissimo “mea culpa”, ma a quanto pare vuole far vivere ai suoi lettori il dramma che si consuma, dopo il delitto, nella testa dell’assassina.
Ecco. La premessa è buona. Il materiale, viste le centinaia di perizie sulla Fort, non manca affatto.
Quella che manca, in compenso, è la capacità di narrare in modo chiaro e di coinvolgere il lettore.
Perché io capisco che il signor Orsenigo desideri condurci all’interno di una mente malata e stremata dal dolore e dalla prigionia. Capisco perfettamente che voglia rispecchiare la pazzia di Rina Fort nel suo stile. Lo capisco, davvero.
Però è un esercizio assai difficile. Un esercizio che, finora, ho visto riuscir perfettamente solo a un tale che di cognome faceva Dostoevskij. E dici poco.

Lo stile di Orsenigo è allucinato. Non trovo altra parola. Si salta da un punto di vista all’altro, tanto che il lettore non solo è spiazzato (il che potrebbe essere, di per sé, una buona cosa), ma si perde non tanto nei meandri della mente di un assassina quanto in un labirinto di idee, pensieri, descrizioni, luoghi.
Si fa addirittura confusione coi soggetti. Nel corso del capitolo IV, per esempio, quando viene descritta la procedura di elettroshock cui viene sottoposta la Fort, si passa da una narrazione impersonale, a metà tra il punto di vista del narratore e quello della protagonista (“… quanto ci ragiona Caterina su quel lavoro da sarta!…”) a una narrazione in prima persona (riportata nella citazione iniziale). Il tutto senza preavviso, senza nemmeno uno stacco, se non logico almeno grafico.
Senza contare che non c’è un filo logico né temporale. Nulla.
Certo, a meno che dopo pagina 100 qualcosa non cambi, ma dando una sfogliata al tutto non mi pare proprio che accada. E comunque sarebbe troppo tardi.
Da lettrice sono rimasta alquanto delusa.

Ma non disperino coloro che sul caso vorrebbero sapere di più! Ne parla egregiamente Dino Buzzati nelle sue Cronache nere, un libricino che penso sia ormai fuori stampa (io l’ho trovato in una libreria di provincia in un’edizione della casa editrice Theoria, collana Riflessi). Nemmeno 100 paginette, ma chiare, estremamente interessanti e scritte, be’, scritte da Dino Buzzati, il che è di per sé una garanzia.

La stessa storia, gli stessi protagonisti. Ma è lo stile a fare la differenza.